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L'uomo e l'acqua

Si fa presto a dire rubinetto

“Nulla può essere dato per l’uso dell’aria e dell’acqua o di quale che sia altro dono della natura, di cui esiste una quantità illimitata: ciò in base ai principi comuni della domanda e dell’offerta.”
David Ricardo “Principi di economia politica e tassazione”, 1817.
 

 

Il rubinetto è un oggetto che, se si prescinde dalla moderna ricerca di originalità perseguita dai designer, può sembrare banale. Volendo estremamente semplificarne la funzione, l’oggetto si riduce ad una chiave che consente di interrompere, regolare o riattivare il deflusso di un liquido o di un aeriforme attraverso una tubazione. E infatti era definito “chiavetta” ancora alla fine dell’Ottocento, prima che si diffondesse il francesismo “robinetto”, coniato dal termine popolare francese “robin” (montone), in quanto gli artigiani si ispiravano alla testa di quell’animale nel realizzarlo.
La quotidianità di un gesto, che nel mondo industrializzato appare scontato, fa scordare che la maniglia azionata dalla nostra mano è solo un elemento di un complesso sistema al di fuori del quale il rubinetto come lo conosciamo non potrebbe esistere. Proprio per questo è impossibile descriverne la storia nei termini di una lineare e progressiva crescita, in quanto esso è piuttosto il prodotto di un complesso intreccio di fattori sociali, economici e tecnologici.
L’acqua costituisce da sempre una necessità vitale per le comunità umane, essendo impiegata non solo in svariati usi domestici, ma anche per l’agricoltura, le attività produttive, i trasporti e la lotta contro gli incendi. In ogni epoca si è quindi cercato di sfruttare, mediante i sistemi più efficaci ed economici a disposizione, le risorse idriche del territorio. Queste si possono fondamentalmente suddividere in tre tipi: acque di falda, piovane e superficiali. Le cisterne per la raccolta della pioggia e i pozzi captanti la falda freatica superficiale rappresentano i sistemi più antichi di approvvigionamento per località lontane da acque superficiali quali laghi, fiumi o torrenti, ma non possono garantire una portata regolare, variando questa in funzione delle stagioni e del prelievo, e spesso nemmeno una buona qualità, trattandosi di acqua stagnante suscettibile di inquinamento biologico o chimico. Secchi calati con corde consentono di attingere l‘acqua per il successivo trasporto alle abitazioni. In passato le case signorili non mancavano mai di un pozzo o di una cisterna per l’uso domestico, mentre più abitazioni popolari erano spesso costrette a condividerli. In molte città esistevano pozzi o fontane pubblici ad utilizzo del quartiere.
La complessità delle operazioni di prelievo e trasporto, oltre alla necessità di limitare l’utilizzo in periodi di siccità, rende la quantità d’acqua pro capite ottenibile con questi sistemi piuttosto ridotta e problematico l’utilizzo da parte di gruppi umani numerosi. Non è un caso che siano le civiltà più urbanizzate ad aver sviluppato sistemi avanzati per risolvere i complessi problemi idraulici che derivano dalla necessità di condurre negli abitati la quantità d’acqua necessaria al fabbisogno, dovendo altresì affrontare i rischi legati alla cattiva qualità e all’inquinamento.
Un moderno acquedotto si compone essenzialmente di un impianto di presa, con eventuale pompaggio, di un impianto di trattamento e di una rete di distribuzione. Rubinetti e valvole trovano ampio utilizzo nelle varie parti del sistema, benché l’utenza privata sia principalmente in contatto con la rubinetteria idrosanitaria. Negli acquedotti antichi le stazioni di pompaggio, se presenti, erano basate sulla forza animale (o umana) o su quella idraulica, così come non era obbligatorio il trattamento dell’acqua. La rete di distribuzione era decisamente ridotta per quanto concerne l’utenza privata e puntava soprattutto a rifornire fontane pubbliche a cui la popolazione poteva gratuitamente attingere. Essi però differiscono da quelli moderni soprattutto per la pressione.
I sistemi di conduzione si possono dividere in due categorie generali: a pelo libero e a condotta forzata. Nei primi l’acqua procede per caduta e rimane sempre a contatto con l’aria, nei secondi scorre a forte pressione entro tubature in cui l’aria è assente. I condotti del primo tipo, basati sul principio dei vasi comunicanti, convogliano l’acqua in punti collocati ad una quota inferiore rispetto a quella del serbatoio superiore. Poiché è raro che questo sia decisamente più elevato di quello delle abitazioni, salvo che non si disponga di pompe idrauliche non è possibile portare l’acqua ai piani alti.
Negli acquedotti a pressione, grazie ad una serie di serbatoi sopraelevati opportunamente distribuiti e alla presenza di sistemi di pompaggio, l’acqua è mantenuta nelle tubature ad una pressione tale da consentirle di salire anche i piani superiori.
L’utilizzo di condotte forzate non è appannaggio esclusivo del mondo moderno. Alcuni esempi sono infatti attestati già negli acquedotti romani, dove erano brillantemente impiegati per risolvere complessi problemi di idraulica, ma il loro uso rimane eccezionale.
I moderni acquedotti hanno la loro origine più nel medioevo, che nel mondo romano, se si prescinde da alcuni casi in cui le condotte antiche sono fortunosamente sopravvissute fino ai nostri giorni. A partire dal Mille, si assiste infatti ad una progressiva e inarrestabile crescita demografica, nonostante i terribili vuoti lasciati dalle ricorrenti epidemie. Le città dovettero quindi confrontarsi continuamente con il problema del rifornimento idrico. I metodi utilizzati variavano naturalmente in base alle disponibilità d’acqua nel territorio e alle condizioni storiche.
Nella Firenze duecentesca nelle aree di nuova espansione edilizia venivano progettati grandi isolati raggruppanti case a schiera con pozzi al servizio di più case. Nel XV secolo comunemente i pozzi erano al livello delle cantine, ma talvolta sboccavano nel cortile, al centro o in nicchie delle pareti e vi si attingeva con una secchia sospesa, per mezzo di una corda o una catena, ad una carrucola. In cucina, oltre ai trogoli di legno vi erano acquai di pietra con scarico nel cortile e l'acqua era conservata in una secchia con rubinetto appesa al muro. L’acquaio da sala in pietra era ricavato in una nicchia e ornato spesso con una cornice, ma in realtà ci si poteva lavare le mani ovunque grazie a preziosi acquamanili.
Città ubicate in zone povere d’acqua si sforzavano di risolvere il problema con grandiose costruzioni. Nel Duecento secolo a Siena venne iniziato l’acquedotto detto “I Bottini” che alla fine del secolo seguente era costituito già da 25 km di gallerie sotterranee dotate di cisterne in grado di fornire acqua anche in periodi di magra ad oltre 50 fonti e 5 pozzi esistenti in città. L’opera era giudicata assurda dai comuni rivali, come Firenze, che contavano sul fiume e sui pozzi, al punto di diventare il simbolo della follia dei Senesi (Dante, Purg. XII, 152-3).
Anche i pozzi potevano però assumere dimensioni grandiose. Ad Orvieto, fortificata da Clemente VII dopo il terribile sacco di Roma del 1527, l’architetto Antonio da Sangallo, incaricato di realizzare un’opera in grado di rifornire la città anche in caso di assedio, terminò nel 1537 la costruzione di un pozzo del diametro di 13 metri e profondo 62, con due ampie scale a elica che consentivano il prelievo e il trasporto dell’acqua a intere carovane di muli. Tale era l’abbondanza d’acqua da far meritare all’opera il soprannome di Pozzo di San Patrizio.
La situazione di Genova appare incredibilmente prospera, almeno stando alle parole del Berlendis: “Tutti i caseggiati di questa Città sono per lo più composti da sette a dieci piani, ed a differenza del costume degli altri paesi, sono più ricercati, ed a maggior prezzo si affittano i piani superiori in confronto degli inferiori, e ciò perché la soverchia altezza delle case, e la ristrettezza delle contrade, rendono questi ultimi oscuri e meno salubri. Uno dei principali comodi e vantaggi di questa Città si è il poter condurre l'acqua, per mezzo di tubi di piombo, anche sino agli ultimi piani superiori, qualunque sia l'altezza del fabbricato. Quest'acqua viene estratta sino dal paese di Calzolo, e portata in Genova per mezzo di un acquedotto ben chiuso, lungo 18 miglia tra valli e monti, la quale, essendo il livello dal suddetto paese considerabilmente superiore a quello della Città, s'incammina per propria pressione nei tubi di diramazione anzidetti e giunge con ciò alla maggior altezza occorribile. Quasi ogni casa ne è fornita, e chi non l'avesse può facilmente acquistarla. Questo vantaggio certamente incalcolabile e grande, è dovuto all'opera di Giovanni Aicardo, nativo di Cuneo e morto l'anno 1625. La Città però non manca di abbondanti pozzi e fontane, di modo che non resterebbe senz'acqua, anche nel caso, che in occasione d'assedio, venisse tagliato l'acquidotto.”
Nel medioevo le condutture in genere erano ricavate da tronchi scavati all’interno che non solo avevano portate minime ma, interrati, erano soggetti ad infiltrazioni e dovevano in breve tempo essere sostituiti. I tubi in ghisa, attestati per la prima volta ad Augusta nel 1468, ebbero inizialmente scarsa diffusione al di fuori delle aree dove più avanzato era questo tipo di lavorazione. Nel 1539 iniziò la costruzione di tubi in piombo fuso che godettero di grande popolarità almeno finché Lambe non ne scoprì i rischi di avvelenamento nel 1797. Solo con la messa a punto degli altiforni, nel XVIII secolo, inventori e costruttori poterono contare anche sull’acciaio.
Una città fluviale come Parigi non si poneva il problema dell’acqua. Chi non l’attingeva direttamente dalla Senna poteva acquistarla dai rivenditori ambulanti. A Londra invece, poiché risultava difficile attingere dal fiume e gli affluenti erano usati piuttosto come cloache, ve n’era una paradossale carenza. Nel 1285 fu costruito il primo serbatoio per raccogliere l’acqua portata con tubi di piombo da Paddington. Nel 1582 l’olandese Peter Morice costruì sotto il ponte di Londra una pompa a ruota idraulica per distribuire l’acqua del Tamigi nelle case private, a pagamento, mediante tubi di piombo. Era nata la New River Company, che dimostrò la convenienza dell’affare e aprì la strada ad altre iniziative similari anche in altri paesi.
La messa a punto di efficienti sistemi di pompaggio, componente fondamentale di un moderno acquedotto, vennero affrontati con successo in un contesto ben diverso da quello domestico. Dal XVI secolo la profondità delle miniere aveva cominciato ad aumentare e nel XVII secolo vennero introdotte pompe a stantuffo mosse da ruote ad acqua del diametro di oltre 15 metri per eliminare l’acqua. Nel 1698 venne brevettata una prima pompa a vapore che si rivelò un fallimento, ma nel 1712 una nuova macchina, alimentata da un motore a vapore Newcomen, fu sperimentata con successo nel Devonshire. Nei decenni successivi numerosi inventori fecero a gara, anche per i consistenti ritorni economici, nel migliorare le pompe sul fronte dell’economicità e della potenza. Dal 1811 e per circa un secolo, con la pubblicazione dell’Engine Report, su cui erano mensilmente pubblicate le caratteristiche tecniche e l’efficienza media dei motori, le miniere della Cornovaglia diventarono una vera palestra della meccanizzazione moderna.
Un’altra invenzione si rivelò decisiva: la scoperta nel 1885 del motore asincrono da parte di Galileo Ferraris, che consentì nel 1888 la costruzione dei primi motori elettrici. Questi non solo si rivelarono utilissimi per la costruzione di pompe elettriche, ma rivoluzionarono la stessa industria, svincolandola dalla necessità di sfruttare l’energia idraulica su cui, non disponendo l’Italia di grandi risorse di carbone, si era basata fino a quel momento. Da questo punto di vista anche la nascita del distretto cusiano del rubinetto fu resa possibile anche da questa invenzione.
L’uso delle pompe non trovò applicazione solo nella costruzione degli acquedotti pubblici, ma anche negli impianti privati. Un esempio di applicazione di tecnologie moderne in contesti rurali, si ha a Bolzano Novarese all’interno di villa Borsini Marietti. Il più antico sistema di rifornimento era costituito dal pozzo ubicato al centro della facciata, a meno di venti metri dal pozzo nero. Il prelievo era manuale e alla servitù spettava il compito di riempire le brocche e i catini ad uso personale nelle varie stanze della casa. Poco dopo il 1875 la casa viene ampliata e il pozzo è coperto dalla scalinata, ma tenuto in funzione con l’applicazione di una pompa aspirante premente azionata a mano mediante la quale si provvedeva a riempire un serbatoio sul tetto da cui, per caduta, venivano alimentati vari rubinetti nella casa. Nel 1907 si interviene sul nuovo pozzo pertinente ad un’abitazione confinante, recentemente acquisita. Alla pompa a ruota manuale, già installata dal precedente proprietario per alimentare un serbatoio collocato in soffitta, si affianca una pompa a cinghia in grado di spingere l’acqua fino al tetto della nuova casa, molto più alta, che viene munita di impianto per l’acqua calda, lavanderia e stanze da bagno con lavandini, vasca, doccia e water collegati ad un nuovo pozzo nero, ubicato nel giardino, dove viene installata anche una presa antincendio. Poiché in caso di rottura delle cinghie, abbastanza frequente, la servitù era costretta a spendere diverse ore di esercizio ginnico per riempire il serbatoio sul tetto, verrà in seguito installata una pompa a motore elettrico, che rimarrà attiva fino all’allacciamento all’acquedotto comunale realizzato nel 1972.
La gestione di un acquedotto oggigiorno comprende la necessità di garantire la salute pubblica mediante frequenti controlli, interventi di filtraggio e disinfezione. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare il limite di potabilità dell’acqua non è però un dato assoluto e in passato era decisamente più aleatorio. A parte il fatto che quanto esso sia “certo” nella nostra società si può facilmente arguire dalle periodiche polemiche sul tasso di sostanze inquinanti ammissibili “per legge”, è certo che in passato veniva comunemente consumata acqua che le nostre ASL giudicherebbero imbevibile. Allo stesso modo, come può sperimentare chiunque si rechi nei paesi non industrializzati, le popolazioni locali sono pressoché immuni da una serie di disturbi intestinali, più o meno gravi, che colpiscono inesorabilmente i turisti.
Per quanto variabili ed elastici siano i parametri, ogni epoca ha fissato dei requisiti di qualità per consentire la potabilità dell’acqua. Se oggi essi sono fissati per legge (in Italia il D.P.R. 263/1988), per lungo tempo essi furono affidati ai sensi: sapore, odore e aspetto erano utili, benché approssimativi, criteri di analisi dei parametri organolettici. Prima dello sviluppo della chimica moderna era del resto impossibile anche solo concepire l’analisi dei parametri chimico fisici e procedere alla rilevazione di sostanze tossiche o indesiderabili. Allo stesso modo solo le ricerche della medicina del Diciannovesimo secolo consentirono di comprendere realmente i meccanismi di diffusione delle malattie e porre quindi le premesse, anche teoriche, della disinfezione dell’acqua. Cosa potesse accadere prima si deduce facilmente da due esempi
A Parigi fino agli inizi del XIX secolo, l’acqua della Senna veniva utilizzata dalla popolazione direttamente, mediante gli acquaioli o i primi rudimentali acquedotti e persino la falda di molti pozzi era in collegamento con il fiume. Le ordinanze comunali di Parigi proibivano di gettare escrementi, sporcizia e immondizia nella corrente, ma si dovette istituire una polizia dell’acqua, la cui inutilità e inerzia divennero subito leggendari, con l’incarico di vigilare sul rispetto della legge. Nel 1416 si giunse all’abbattimento della Grande Macelleria, che gettava le carcasse degli animali nel fiume, ma i cadaveri delle esecuzioni capitali o le vittime dei vari tumulti continuarono per lungo tempo a galleggiare nel fiume, cos’ come continuarono gli scarichi più o meno abusivi. L’acqua era comunque considerata non solo potabile ma persino buona e l’ospedale maggiore si munì di una rudimentale macchina che ne convogliava l’acqua in un serbatoio posto sul tetto, da cui per caduta giungeva in tutte le camere. Ma nel fiume scaricavano le stesse fogne dell’ospedale, assieme a quelle delle case sulla sponda sinistra, mentre sulle rive si abbeveravano gli animali e le lavandaie facevano il bucato. Fino al XVII secolo il rimedio ritenuto più efficace per cacciare “i demoni che avvelenavano le acque” era il fumo dei fuochi di San Giovanni su cui erano gettati gatti vivi.
A Londra nel 1827 circa 70.000 case erano allacciate all’acquedotto, gestito da diverse compagnie, che mediante pompe prelevavano l’acqua soprattutto dal Tamigi, distribuendola per alcune ore al giorno. Di notte l’erogazione era sospesa e in caso d’incendio un uomo doveva correre per chiedere l’apertura dell’acquedotto. Quello che usciva dai rubinetti era spesso un liquido così “torbido e melmoso” da essere giudicato inadatto agli usi culinari o domestici, ma l’opinione corrente era che “benché l’acqua torbida sia offensiva alla vista, l’esperienza ha soddisfacentemente provato non essere pericolosa per la salute”. Le commissioni mediche, pur rassicurando sulla non pericolosità dell’acqua, raccomandavano però di migliorarne l’aspetto. Ad ogni modo ben pochi la bevevano pura, dando la preferenza alla birra o al gin. Nonostante i ripetuti allarmi di chi sosteneva invece che il Tamigi fosse diventato ormai a tutti gli effetti la fognatura principale della città, in cui confluivano non solo gli scarichi delle latrine, ma anche quelli delle industrie e delle manifatture, l’acqua del fiume continuò a trovare i suoi sostenitori.
Il colera, diffusosi in tutta Europa nel XIX secolo mietendo decine di migliaia di vittime, fu una delle spinte più forti alla costruzione di acquedotti e fognature moderne. L’introduzione dei primi water closet aveva aumentato considerevolmente la quantità degli scarichi, sovraccaricando così i vecchi sistemi fognari e i pozzi neri, aumentando paradossalmente l’inquinamento degli acquedotti.
A Londra a seguito delle epidemie del 1849, 1853 e 1854, fu possibile dimostrare, statistiche alla mano, che la maggior parte di contagi si era avuta nei distretti che distribuivano l’acqua del Tamigi non filtrata, mentre risultava considerevolmente inferiore in quelli in cui veniva filtrata. Grazie agli studi di Koch, le indagini batteriologiche compiute tra il 1885 e il 1888 mostrarono che i filtri riuscivano ad eliminare solo il 95 % dei batteri. L’introduzione della clorazione dell’acqua nel 1897, la soppressione delle vecchie compagnie private nel 1904 con l’istituzione dell’acquedotto comunale e la messa in pressione continua delle tubazioni consentirono, nel 1920, di poter considerare sufficientemente sana l’acqua.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, proprio a partire dalle esperienze londinesi, la necessità di migliorare la salute pubblica fu sentita in tutti i paesi avanzati, che approvarono leggi sulla tutela dell’igiene e diedero il via alla costruzione di infrastrutture. La precedenza era data generalmente alla costruzione degli acquedotti, politicamente più di effetto sulla popolazione, col risultato paradossale di aumentare spesso, anziché diminuire, le possibilità di contagio, in particolare di tifo e colera, in assenza di adeguati sistemi fognari. La campagna igienizzatrice, che in Italia portò alla legge Crispi del 22 dicembre 1889, determinò la costruzione di lavatoi, bagni pubblici e servizi igienici collegati alle fognature nelle nuove strutture. Parallelamente prendevano sempre maggior forza, anche grazie alla scoperta dell’esistenza dei batteri, le correnti igieniste ed idroterapiche che diedero il via a campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica a cui presto concorsero tutte quelle aziende che potevano trarre utili dal nuovo clima. Nei decenni successivi, prima nelle città e poi nelle campagne, l’acqua corrente nelle case, pura e abbondante divenne un simbolo del progresso da raggiungere. 
Il fabbisogno giornaliero italiano attuale, stimato in 200 o 250 L per persona, non solo sarebbe parso incredibile ad un bolognese nel 1878, che poteva contare su un litro e mezzo al giorno ma ancora oggi è un miraggio per moltissimi abitanti del pianeta. La moderna “civiltà dell’acqua”, di cui l’industria del rubinetto è una componente essenziale, si basa sulla possibilità, che si è offerta rarissime volte nel corso della storia, di averne a disposizione quantità largamente superiori ai nostri bisogni ad un costo praticamente irrisorio.
A distanza di poche generazioni dalla messa a punto degli acquedotti moderni, per gli abitanti del mondo industrializzato l’idea di poter avere a disposizione solo pochi litri di acqua al giorno appare quasi impensabile e scandaloso il modo di vita dei nostri “sporchi” antenati. Contemporaneamente continua ad aumentare il fatturato dei moderni acquaioli, i fabbricanti di acque minerali, segno di una sfiducia crescente nei confronti dell'acqua di rubinetto dovuta spesso alla sua, reale o presunta, cattiva qualità. Se si porgesse uno sguardo più attento a ciò che accade in altre zone del pianeta e maggior ascolto alle voci che cominciano a parlare dell’acqua come di una risorsa sempre più rara, un vero “oro blu” del terzo millennio il cui valore economico è destinato a crescere, forse saremmo più consapevoli ogni volta che apriamo un rubinetto.

Andrea Del Duca

Bibliografia

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  • Paul M. Hohenberg, Lynn Hollen Lees, La città europea dal medioevo ad oggi, Bari 1990.
  • A.Rostagnotto - Mario Patrucco, La miniera come origine e palestra dei primordi della meccanizzazione moderna: vestigia storiche in Cornovaglia, Atti convegno “De Re Metallica”, Torino 1994.
  • Paolo Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua. Riti e culture, Milano 1998.
  • Lawrence Wright, La civiltà in bagno. Storia del bagno e di numerosi accessori e mode riguardanti l’igiene personale, Milano 1961.

 

Tratto Da "L'uomo e l'acqua. Rubinetti, bagni e mode culturali attraverso i secoli", I quaderni dell'ecomuseo, Pettenasco, 2001.

Per gentile concessione.

 

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